La Pentarchia ( Storia della Chiesa)

1. La Pentarchia
Il governo della Chiesa nel primo millennio si fonda su due criteri, apparentemente alternativi, ma che in realtà non si contraddicono ed anzi si compongono in una soluzione ad incastro, in virtù della quale la loro sovrapposizione non implica l’elisione di uno dei due. Questi due criteri sono il sistema della Pentarchia dei patriarchi e la posizione primaziale di Roma. Il primo soprattutto richiede oggi, trattandosi di una prassi e di una teoria di governo della Chiesa da tempo storicamente superata, un’adeguata presentazione.
Esso consiste, come suggerisce la semantica greca del termine (“governo dei cinque”) nel riconoscimento alle cinque sedi maggiori della cristianità antica (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), oltre all’autorità direttamente esercitata sui rispettivi spazi giurisdizionali (l’occidente, la Tracia e l’Asia minore, l’Egitto e la Cirenaica, l’Asia – cioè la Siria e il Libano – e le tre Palestine – Israele e Giordania), di una responsabilità collettiva in ordine all'ortodossia della fede ed al governo della Chiesa universale. Poiché tale ordinamento emerge per la prima volta come una realtà stabilmente istituita nelle Novelle giustinianee, si può dire che esso compare all'orizzonte istituzionale della Chiesa già nella pienezza delle sue funzioni.
Proprio le Novelle infatti, e precisamente nel proemio della VI, dedicato alla gemmazione dell'unico indiviso potere divino nelle forme storiche della regalità e del sacerdozio, forniscono alla Pentarchia, anche in questo caso indirettamente, il quadro istituzionale di riferimento. Se infatti la regalità è, per definizione, monocratica, il sacerdozio è invece policentrico, ha una struttura che storicamente si è venuta qualificando a cinque vertici. La Pentarchia nasce precisamente nel momento in cui l'imperatore, unico detentore della regalità, scegliendo i titolari di queste cinque sedi come interlocutori per parte del sacerdozio, ratifica implicitamente un organigramma interno che la Chiesa si è data attraverso una evoluzione, segnata innanzitutto dalle delibere dei primi quattro concili, e gli annette valenze indubbiamente nuove di ordine ecclesiologico e di natura istituzionale. Per facilitare la comprensione e la memorizzazione di quello verrò presentando, mi pare opportuno anticipare a questo punto alcuni dati conclusivi, in ordine all’intersecarsi dei due principi quello pentarchico e quello del primato romano.

a. Nella teoria e nella prassi relative a questo sistema pentarchico i cinque
vertici del sacerdozio non sono sullo stesso piano: c'è un primo trono, quello di
Roma, «vetta della montagna apostolica», il cui titolare, «capo di tutti i
vescovi», è il vertice nell'ambito del vertice a cinque punte del sacerdozio.

b. Se Pentarchia e primato romano non sono modelli ecclesiologici alternativi,
si riscontra tuttavia una versione "pentarchica" del primato romano non certo
coincidente con quella romana in auge nel tempo che precede, accompagna e
segue la piena operatività di questa forma di governo della Chiesa universale. Il
primato romano è un elemento già presente nella legislazione imperiale ben
prima che compaia il sistema pentarchico, come risulta dal Codice Teodosiano,
(Novella XVII di Valentiniano III dell'8 luglio 445) che sancisce il primato di
questa sede sulla triplice base del meritum dell'apostolo Pietro, della dignitas
della città di Roma nonché dell'auctoritas di una non precisata sinodo che
avrebbe interdetto la «inlicita praesumptio» di «quid adtemptare... praeter
auctoritatem sedis istius». Esso verrà di nuovo a più riprese ratificato dalla
successiva legislazione imperiale pressoché simultaneamente alle disposizioni
che definiscono il ruolo dell'istituzione pentarchica, sino ad esserne riconosciuto
un elemento costitutivo. Senonché, se la Pentarchia presuppone il primato
romano, le diverse accezioni in cui esso è inteso a Roma ed in oriente
autorizzano a parlare di un inespresso equivoco pentarchico persistente per tutto
il tempo in cui la responsabilità collettiva delle cinque sedi patriarcali nel
governo della Chiesa universale fu effettivamente esercitata.

c. La Pentarchia, come ideale e metodo di governo, corrisponde ad un periodo
preciso, ad una fase limitata nel tempo e ad un certo punto esauritasi nella vita
della Chiesa. Trattandosi della struttura ecclesiastica caratteristica della Chiesa
imperiale, essa presuppone ovviamente l'esistenza dell'impero e, fondandosi
sull'istituzione patriarcale, presuppone altresì che l'organigramma delle cinque
sedi sia completo. 

Se pertanto, in senso puramente teorico, l'arco di vita della Pentarchia si estende ad un intero millennio, dal 451 - anno di Calcedonia - al 1453 - anno della caduta dell'impero -, praticamente esso è ben più ristretto. Dal costituirsi del collegio dei cinque patriarcati, non ancora tecnicamente così definiti, all'attribuzione ad esso di specifiche competenze, disciplinari e dogmatiche, nella guida della Chiesa ecumenica, deve passare circa un secolo. Con la fine dell'unità religiosa tra oriente e occidente, definitivamente consumatasi, anche nella coscienza ecclesiale, all'inizio del XIII, tale istituzione aveva già perso non soltanto di attualità, ma anche di senso. Persino tra questi due estremi già più ravvicinati il periodo di effettivo funzionamento del sistema pentarchico nella dinamica religiosa della Chiesa imperiale fu in realtà ancora più ridotto: lo si potrebbe porre, a stretto rigore, dall'età giustinianea all'estinguersi della dinastia di Eraclio. In tal senso si può dire che il sistema pentarchico è la forma di governo della Chiesa caratteristica di due secoli avanzati dell'età tardo-antica, il VI ed il VII. La storia della Pentarchia è tuttavia più lunga della sua vita reale e si può pertanto suddividerla, nel corso del primo millennio, in due momenti.

a. Il primo è appunto il periodo della Pentarchia reale, cioè quello
dell'effettivo funzionamento di questa istituzione. È la fase in cui, come è stato
acutamente osservato da Gilbert Dagron, la Pentarchia è una prassi senza teoria,
in quanto alle cinque sedi maggiori del sacerdozio è riconosciuto il ruolo di
interlocutore collettivo della regalità, senza il supporto di particolari
giustificazioni sul piano ecclesiologico.

b. Durante la seconda iconomachia - all'inizio pertanto del IX secolo - si
assiste, soprattutto ad opera del patriarca Niceforo e di Teodoro Studita, ad una
tardiva eleborazione di una vera e propria, anche se non sistematica,
ecclesiologia pentarchica, proprio quando questa forma di governo collegiale
della Chiesa risulta nei fatti difficilmente praticabile per la sopravvenuta
estraneità dei tre patriarcati orientali alla diretta sovranità dell'impero a motivo
dell'invasione islamica. Ciò vale soprattutto per le sedi di Alessandria e di
Antiochia; nella misura in cui Gerusalemme riesce ad interagire con Roma e con
Costantinopoli, tramite i nuclei monastici palestinesi stanziati in occidente e
l'invio di rappresentanti alle autorità ecclesiastiche delle due Rome, si può dire
che la Pentarchia si è ridotta di fatto ad una triarchia. É il momento in cui la
Pentarchia, osserva questa volta il Dagron, è una teoria senza più prassi. Noi
diremmo che è il periodo della Pentarchia virtuale.


La mappa di un videogioco riporta in modo impressionante le sfere di influenza dei patriarcati precedenti allo Scisma. La Spagna rossa significa territori di rito mozarabico, a giurisdizione particolare.

2. La Pentarchia reale

Nel primo momento, quello della Pentarchia in atto, un tentativo di delineare il ruolo di Roma nell'ambito di questa istituzione dovrà pertanto fondarsi, nell'assenza di elaborazioni teoriche, sull'esame del rituale istituzionale della Pentarchia, cioè sulle forme ordinarie e straordinarie degli strumenti di comunione tra le cinque sedi patriarcali e soprattutto sui titoli ufficiali e gli epiteti ideologici attribuiti in questo periodo dalle altre sedi a quella romana.

a. Roma nel rituale istituzionale della Pentarchia
Gli strumenti ordinari di comunione del vertice a cinque punte del sacerdozio al suo interno e con la regalità sono quattro: due, l'istituzione dell'apocrisiario romano ed il provvedimento di conferma dell'elezione patriarcale da parte dell'imperatore, riguardano il rapporto della sede romana con il sovrano e due, le lettere sinodali, con la professione di fede del neopatriarca, e i dittici, leggendo i quali ogni patriarca esprime liturgicamente la comunione con gli altri, riguardano invece il mutuo rapporto dei titolari delle cinque sedi ecumeniche. Le forme straordinarie di comunione sono a loro volta due, precisamente la presenza dei topotereti romani ai concili - rappresentanti temporanei del papa, mentre l'apocrisiario lo è in forma permanente - ai quali viene attribuito un ruolo primaziale, nonché i viaggi dei papi a Costantinopoli. Quello di apocrisiario è un ufficio che presuppone la lontananza e la stabilità nelle rispettive residenze delle due autorità, ecclesiastica e civile, necessitate a mantenersi in continuo contatto. Espressione caratteristica dell'afferenza della Chiesa romana al sistema ideologico-culturale dell'impero romano cristiano, esso rappresenta l'istituzione propria della chiesa imperiale e si inquadra perfettamente nella forma di governo pentarchico della Chiesa: non è un caso che essa sia espressamente contemplata per la prima volta nella legislazione giustinianea. L'apocrisiario romano è normalmente un diacono romano residente a Costantinopoli, che ha la dimora ufficiale nel palazzo di Placidia, già alloggio nella capitale dell'arcivescovo Teofilo d'Alessandria e dove prendono dimora anche i topotereti romani ai concili che si svolgono a Costantinopoli. Egli è rappresentante del suo patriarca presso il sovrano e non presso la sede costantinopolitana, anche se di fatto funge pure da canale normale per le relazioni tra il papa ed il patriarca. La lettera di conferma imperiale all'elezione papale è lo strumento che forse più di ogni altro mette in evidenza l'inquadramento della sede romana nel sistema ideologico-religioso dell'impero. Se il rescritto imperiale di Costantino IV del 684-85 al clero, al popolo ed all'esercito di Roma abolì formalmente l'obbligo della ratifica imperiale alla nomina papale, in realtà confermò l'essenzialità di questa misura, demandandola all'esarco ravennate, suo rappresentante in Italia, unicamente perché la consacrazione del nuovo papa avvenga «absque tarditate». Peraltro già una prima conferma dell'elezione doveva venire dall'esarco, mentre il prefetto di Roma provvedeva ad inviare nella capitale la documentazione canonica del neoeletto per la ratifica imperiale.

Il neoeletto doveva anche pagare una tassa di elezione, soppressa nel 681, su richiesta di papa Agatone, da Costantino IV, che nel rescritto conferma l'obbligo per il nuovo papa, sancito da una «antica consuetudine», di attendere la conferma imperiale per ricevere la consacrazione. Con il termine sinodiche intendiamo sia le lettere sinodiche vere e proprie - ma dette anche sistatiche o intronistiche -, così chiamate in quanto inviate
dall'organismo collegiale che aveva eletto il nuovo patriarca e dal neoeletto, che vi univa la propria professione di fede, ai titolari delle altre sedi, sia le risposte di questi ultimi, chiamate propriamente antisinodiche, che, riconoscendo l'ortodossia del neoeletto, lo accoglievano nella piena comunione di fede. Questo scambio epistolare, momento fondante la comunione ecclesiastica in regime pentarchico, era assolutamente previo a qualsiasi relazione ufficiale con il nuovo titolare di una sede patriarcale precedentemente vacante. Esso suggellava la legittimità della successione episcopale, coinvolgendo direttamente le altre sedi apostoliche, garanti dell'unità dei vertici del sacerdozio nella professione della
fede ortodossa, soprattutto cristologica. I dittici, contenenti l'elenco del patriarchi vivi e defunti che i colleghi della Pentarchia si impegnavano a commemorare liturgicamente. , rappresentano l'epifania liturgico-sacramenatale dell'unanimità nella fede e della piena comunione ecclesiale tra le cinque sedi ecumeniche la cui concordia garantisce l'indefettibilità della dottrina. Per quanto riguarda il ruolo primaziale della sede romana come viene testimoniato da quella forma straordinaria di partecipazione al governo pentarchico della Chiesa che fu l'istituzione dei topotereti, cioè i luogotenenti delle sedi patriarcali ai concili ecumenici, basterà, in quanto campione particolarmente significativo per la cronologia della Pentarchia reale, considerare l'accurata descrizione che il Liber pontificalis romano ci ha lasciato dell'accoglienza a Costantinopoli dei topotereti romani al concilio del 680-681, il sesto ecumenico. Ricevuti dal sovrano nella chiesa palatina di S. Pietro,, essi vengono alloggiati, a spese di quest'ultimo, nel palazzo di Placidia e, nella processione alla chiesa delle Blacherne, siedono su cavalli bardati (« Nelle sedute conciliari hanno il primo posto nell'ordine di precedenza e, di conseguenza, firmano per primi il logos prosfonetico all'imperatore e il decreto dogmatico, come risulta negli Atti conciliari dagli elenchi dei partecipanti e dall'ordine delle firme in calce ai documenti. A suggello liturgico dell'onore riconosciuto alla sede di Roma nell'ambito della Chiesa imperiale, anche in presenza di altri membri del collegio pentarchico, il 21 aprile 681, ottava di Pasqua, al vescovo Giovanni di Porto, membro della delegazione romana, fu chiesto di celebrare in latino la divina Mistagogia nella Grande Chiesa di S. Sofia, davanti a due patriarchi, Giorgio di Costantinopoli e Macario di Antiochia, ed all'imperatore.
Del resto che tra il titolare della regalità ed il primo referente del sacerdozio sia effettivamente presupposto un legame spirituale, evidente riflesso delle rispettive posizioni istituzionale, lo mostrerà anche il cerimoniale di corte, registrato nel X secolo da Costantino VII Porfirogrenito, che attribuisce al papa di Roma - nelle parole rivolte ai suoi legati sia dal sovrano stesso sia dal logoteta che li interroga - il titolo di padre spirituale dell'imperatore. Le formule riservate ai patriarchi di Alessandria di Antiochia e di Gerusalemme, mostrano infatti chequesti altri membri del collegio pentarchico non godevano di tale prerogativa.

TRATTO DA: Il primato di Roma nell'Oriente ortodosso del primo millennio, del prof. Enrico Morini

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