Roma dopo la "Crisi Foziana" ( Storia della Chiesa)

Tratto da: "Il Primato di Roma per l'Oriente Ortodosso del primo millennio" del prof. Enrico Morini. 


Immagine: l'antica Basilica di S. Pietro prima della sua distruzione per sostituirla con l'attuale.

La "crisi foziana" ci testimonia l'iniziale coesistenza di posizioni minimaliste e massimaliste in ordine al ruolo di Roma nella Pentarchia. Nelle due sinodi costantinopolitane dell'869-70 e del 879-80, esse continuano ad integrarsi vicendevolmente in una dinamica che non segue necessariamente i "partiti" ecclesiastici, ma divide trasversalmente gli schieramenti. Si potrebbe anzi aggiungere che al concilio dell'879-80 - come hanno intravvisto sia il cattolico Peri sia l’ortodosso Pheidas - le due sensibilità ecclesiologiche furono in grado di raggiungere un precario equilibrio, anche se la ratifica conciliare di una sostanziale diarchia tra le sedi delle due Rome avrebbe segnato inesorabilmente la fine della Pentarchia anche nella sua dimensione virtuale. Nell'assise dell'869-70 il patrikios Baanes, rappresentante imperiale al concilio, ripropone fedelmente la dottrina sull'origine divina della Pentarchia ed applica a tutti e cinque i patriarchi la qualifica di "capo della Chiesa" (altrimenti riservata al papa), nonché la promessa di indefettibilità della Chiesa contenuta nel loghion mattaico, interpretandola nel senso che alcuni resteranno comunque fedeli alla fede ortodossa (tre o almeno due su cinque). 
Ravvisa anche la possibilità che la retta fede sopravviva in uno soltanto, ma evita significativamente di precisare che questo sarebbe comunque quello romano, "città di rifugio" dell'ortodossia perseguitata, come avevano teorizzato i teologi iconofili. Per converso il patriarca Ignazio - nella sua lettera scritta al papa
Nicola I nell'868 e letta alla terza sessione del concilio - enfatizzava proprio quest'ultimo aspetto, coniando per il papa di Roma una nuova metafora, quella di medico («unum et singularem praecellentem atque catholicissimum medicum») per il corpo divino-umano di Cristo, che è la Chiesa, in preda alla febbre dell'eresia ed al disordine canonico-disciplinare.
 Al concilio, riunitosi esattamente dieci anni dopo, si trovano a confronto non già due ecclesiologie costantinopolitane, rispettivamente minimalista e massimalista per quanto riguarda il primato romano, bensì quella più gelosa delle prerogative patriarcali, ora propria dell'ambiente foziano, e l'ecclesiologia romana, esposta però dai legati papali in termini comparativamente misurati. Il successo di questo concilio d'unione è probabilmente dovuto all'incontro di due diverse forme di moderatismo. L'approccio moderato di Fozio al problema del primato romano è stato individuato da Frantisek Dvornik attraverso l'analisi delle modifiche apportate - o meglio, non apportate - dalla cancelleria patriarcale alle lettere papali arrivate in oriente, al momento della loro traduzione in greco. Tale indagine, anche se condotta per via indiretta - in quanto considera non già ciò che il patriarca dice, bensì ciò che lascia dire al papa - consente di pervenire a conclusioni significative. Mentre infatti vengono puntualmente espunte le censure papali nei confronti di Fozio, non altrettanto avviene per l'enfasi posta dal papa, nella lettera all'imperatore, sulle prerogative della propria sede. Quella di essere "a capo di tutte le Chiese" viene sì trasferita, nell'adattamento foziano, dal papa a Pietro, ma nondimeno è conservata la rivendicazione, per il trono apostolico romano, del potere petrino di legare e sciogliere, nonché l'universalità dell'estensione del suo diritto d'intervento, «fin dove può senza incorrere nel biasimo e nella condanna», in tutte le Chiese.
La lettura sostanzialmente minimalista del primato romano, affermatasi nella pars Orientis dopo la vittoria di Fozio, emerge piuttosto dalla reazione negativa dei primi metropoliti del trono ecumenico all’affermazione dei legati che la Chiesa della Nuova Roma era stata pacificata dall’intervento dell'Antica. Anche in questo contraddittorio si percepisce tuttavia come i legati romani, rivendicando il primato della propria sede in termini inaspettatamente "pentarchici", abbiano ripreso, in questo scorcio finale della fase da me definita della "pentarchia virtuale", la prospettiva ecclesiologica tipicamente orientale al tempo della "pentarchia reale". Questo revival pentarchico comporta una ripresa, anche da parte dei legati romani, di un linguaggio arcaico, testimoniato dall’espressione papa ecumenico, già caratteristico del sentire pentarchico dell'oriente pre iconoclastico e del tutto inconsueto su labbra occidentali. La "restaurazione pentarchica" formalmente promossa da questo concilio è tuttavia espressione di un modello di Chiesa sostanzialmente incompatibile con i presupposti teorici e le modalità pratiche di questa istituzione. 

La pentarchia delineata dal concilio dell'879-80 si regge infatti sul principio dell'isotimia, cioè della parità nelle prerogative, tra la due Rome, almeno come linea di tendenza in via teorica e come dato di fatto nel concreto della dinamica ecclesiale. Fozio non esita a definire il papa, nell'accogliere i legati romani, suo "padre spirituale", secondo una terminologia ancora una volta pentarchica e riservata protocollarmente al rapporto tra il rappresentante della regalità (l'imperatore) ed il vertice del sacerdozio (il papa), ma nondimeno viene acclamato dai suoi vescovi, con l'esplicito assenso dei legati romani, «sorvegliante del mondo intero, a immagine del Cristo, arcipastore», con la sorprendente appropriazione di attributi imperiali.
Questa tendenza all'isotimia tra Roma e Costantinopoli ha la sua più autorevole ratifica nel primo canone promulgato da questo concilio che prescrive il reciproco riconoscimento, da parte dei titolari delle due Rome, delle misure canonico-disciplinari da essi deliberate nei confronti di chierici e laici della propria giurisdizione, dovunque si trovino. I legati di Roma, in una dichiarazione fatta nel corso della quinta sessione dal cardinale Pietro, affermano che il papa Giovanni VIII ha conferito il potere di legare e di sciogliere, ereditato dall'apostolo Pietro, al patriarca Fozio.
Proprio uno dei principali convincimenti a cui siamo pervenuti nella nostra analisi è che, sia nella prassi sia nella teoria pentarchica, le prerogative anche più esclusive della sede romana prendono le mosse da un potere condiviso. Ciò viene esemplarmente espresso, quasi ai limiti del paradosso, nella già ricordata locuzione dell'imperatore Costantino IV, contenuta nella sua lettera al papa del  dicembre 681, dove la posizione rispetto a Roma dei restanti patriarchi è definita, con un'unica formula, come quella di consedenti insieme alla maestà papale e, nel contempo, di sedenti dopo di essa. La compresenza delle due particelle, insieme e dopo, oggettivamente in contraddizione, fornisce a questa relazione una coloritura per così dire "antinomica", precisabile con difficoltà già in via teorica e pertanto ancora di più nel concreto della dinamica dei rapporti ecclesiali. Nel contempo, nella Chiesa "imperiale" si registra una prolungata continuità, dagli imperatori Giustiniano e Foca, a Costante II ed a Giustiniano II, nel riconoscimento alla sede romana della prerogativa di "capo di tutte le Chiese".
La valenza "filo-romana" di questa definizione, costantemente ribadita, viene oggettivamente ridimensionata non solo dalla sua stretta correlazione con la qualifica papale - assai più pentarchica - di "capo del sacerdozio", ma soprattutto dal fatto che la fondazione petrina della Chiesa di Roma non è che uno dei
fattori determinanti la sua posizione particolare nell'ambito della Pentarchia. Tale prerogativa pare infatti in sinergia, quando non apertamente sostituita, con altri fattori, come la normativa canonica, nonché la motivazione, tipicamente giustinianea, che, come Roma è patria legum, allo stesso titolo essa è anche fons
sacerdotii. A sua volta il carattere normativo della fede di Roma - scoperto nel pieno della crisi iconoclastica - non è mai isolabile dalla struttura pentarchica della Chiesa: come ogni patriarca non è isolabile dal corpo episcopale della sua giurisdizione - e ne esprime il punto di vista collettivo normalmente in sede
conciliare - così Roma non è isolabile dagli altri quattro patriarchi, ed anche in questo caso dà voce all'intero collegio pentarchico.

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