Serafino di Sarov: Colloquio con Motovilov - parte I

COLLOQUIO FRA IL SANTO MONACO SERAFINO DI SAROV E MOTOVILOV 



Era un giovedì. Il cielo era grigio. La terra era coperta di neve. Spessi fiocchi continuavano a turbinare nell’aria quando Padre Serafino iniziò a conversare con me in una radura vicina al suo «piccolo eremitaggio» di fronte al fiume Sarovka che scorreva ai piedi della collina. Mi fece sedere sul ceppo d’un albero da poco abbattuto mentre lui si rannicchiò di fronte a me.
— Il Signore mi ha rivelato — disse il grande starez — che dalla vostra infanzia avete sempre desiderato sapere quale sia il fine della vita cristiana. Per questo avete interrogato diverse persone alcune dei quali ricoprivano anche alte cariche ecclesiastiche.
Devo dire che dall’età di dodici anni ero perseguitato da quest’idea e che, per questo, avevo rivolto tale domanda a parecchie personalità ecclesiastiche senza mai aver ricevuto una risposta soddisfacente. Lo starez avrebbe dovuto ignorare tutto questo.
Ma nessuno — continuò Padre Serafino — vi ha mai detto niente di preciso. Vi consigliarono di andare in chiesa, di pregare, di vivere secondo i comandamenti di Dio, di fare del bene. Tale, vi dissero, era lo scopo della vita cristiana. Alcuni giunsero pure a disapprovare la vostra curiosità, trovandola fuori posto ed empia. Essi avevano torto. Quanto a me, miserabile Serafino, ora vi spiegherò in che consiste realmente questo fine.
La preghiera, il digiuno, le veglie e le altre attività cristiane, per quanto possano parere buone, non costituiscono il fine della vita cristiana ma sono il mezzo attraverso il quale vi si può pervenire. Il vero fine della vita cristiana consiste nell’acquisire lo Spirito Santo. Per quel che riguarda la preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina ed ogni altro tipo di buona azione fatta in nome di Cristo, non sono che dei mezzi per acquisire lo stesso Spirito.

Nel nome di Cristo
Ricordate che solo una buona azione fatta nel nome di Cristo ci procura i frutti dello Spirito Santo. Tutto quanto non è fatto in suo nome, fosse pure il bene, non ci può ottenere alcuna ricompensa, né nel secolo futuro, né in questa vita mentre su questa terra non ci dona la Grazia divina. È per questo che Gesù Cristo diceva:
«Colui che non accumula con me disperde» (Lc 11, 23).
Pertanto, si è obbligati a chiamare una buona azione «cumulo» o «raccolta», perché essa resta buona anche se non è fatta in Nome di Cristo. La Scrittura dice: «In ogni nazione colui che teme Dio e pratica la giustizia gli è accetto» (At 10, 35). Il centurione Cornelio, che temeva Dio e agiva secondo giustizia, fu visitato mentre pregava da un angelo del Signore che gli disse: «Manda dunque due uomini a Ioppe e fa’ venire un certo Simone soprannominato Pietro. Da lui ascolterai della parole di vita eterna con le quali sarai salvato con tutta la tua casa» (At 10, 5).
Vediamo, dunque, che il Signore utilizza i suoi mezzi divini per permettere a un simile uomo di non essere privato nell’eternità della ricompensa che gli è dovuta. Per ottenerla è necessario che si cominci già da ora a credere in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio disceso sulla terra per salvare i peccatori e per far acquisire loro la Grazia dello Spirito Santo che introduce i nostri cuori nel Regno di Dio e ci apre la via della beatitudine nella prossima vita. Non va oltre a ciò la soddisfazione arrecata a Dio dalle buone azioni compiute indipendentemente dal Nome di Cristo. Il Signore ci dona i mezzi per perfezionarle. Sta all’uomo approfittarne o meno. È per questo che il Signore dice ai giudei: «Se voi foste ciechi, sareste senza peccato ma voi stessi dite: ‘Noi vediamo!’ Perciò il vostro peccato rimane (Gv 9, 41). Quando un uomo come Cornelio le cui opere non erano fatte nel Nome di Cristo, ma erano gradite a Dio, comincia a credere nel Suo Figlio, queste opere gli sono attribuite come se fossero fatte nel nome di Cristo a causa della sua fede in Lui. (Ebr 11, 6). In caso contrario, l’uomo non ha il diritto di contestare se il bene compiuto non gli è servito a nulla. Questo non succede mai quando una buona azione viene fatta nel Nome di Cristo, perché il bene compiuto in suo Nome non porta solo una corona di gloria nel secolo venturo, ma già ora riempie l’uomo della grazia dello Spirito Santo, com’è stato detto: «Dio dona lo Spirito senza misura. Il Padre ama i Figli; Egli ha posto tutto nelle loro mani» (Gv 3, 34-35).

L'acquisizione dello Spirito Santo
Acquisire lo Spirito di Dio è dunque il vero fine della nostra vita cristiana al punto che la preghiera, le veglie, il digiuno, l’elemosina e le altre azioni virtuose fatte in Nome di Cristo non sono che dei mezzi per tal fine.
— Che significa acquisirlo? Domandai a Padre Serafino. Non ne capisco bene il significato.
— Acquisire, ha lo stesso significato di ottenere. Sapete cosa vuol dire acquisire del denaro? Per quanto riguarda lo Spirito Santo è la stessa cosa. Il fine della vita delle persone comuni consiste nell’acquisire denaro, nel fare un guadagno. I nobili, inoltre, desiderano ottenere onori, titoli di distinzione e altre ricompense che lo Stato accorda loro per determinati servizi. L’acquisizione dello Spirito Santo è anche un capitale, ma un capitale eterno, dispensatore di grazie; è molto simile ai capitali temporali e si ottiene con gli stessi procedimenti. Nostro Signore Gesù Cristo, Dio-Uomo, paragona la nostra vita ad un mercato e la nostra attività sulla terra ad un commercio. Egli ci raccomanda: «Negoziate prima ch’io ritorni economizzando il tempo perché i giorni sono incerti» (Lc 19, 12-13; Ep 5,15-16), il che vuol dire: «Sbrigatevi ad ottenere dei beni celesti negoziando i prodotti terreni». Questi prodotti terreni non sono altro che le azioni virtuose fatte in Nome di Cristo le quali ci ottengono la Grazia dello Spirito Santo.

La parabola delle vergini
Nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte (Mt. 25, 1-13) quando quest’ultime finiscono l’olio viene detto loro: «Andate a comperarlo al mercato». Tornando esse trovano la porta della camera nuziale chiusa e non possono entrare. Alcuni pensano che la mancanza d’olio delle vergini stolte simbolizzi l’insufficienza di azioni virtuose nel corso della loro vita. Tale interpretazione non è esatta. Quale mancanza d’azioni virtuose potevano avere, visto che vengono chiamate comunque vergini, anche se stolte? La verginità è una grande virtù, uno stato quasi angelico che può sostituire tutte le altre virtù. Io, miserabile, penso che mancasse loro proprio lo Spirito Santo di Dio. Praticando le virtù, queste vergini spiritualmente ignoranti, credevano che la vita cristiana consistesse in tali pratiche. Ci siamo comportate in maniera virtuosa, abbiamo fatto delle opere pie — pensavano loro — senza preoccuparsi se avessero ricevuto o no la Grazia dello Spirito Santo. Su questo genere di vita, basato unicamente sulla pratica delle virtù morali senza alcun esame minuzioso per sapere se esse ci rendono — e in quale quantità — la Grazia dello Spirito di Dio, è stato detto: «Alcune vie che paiono inizialmente buone conducono all’abisso infernale» (Pr 14,12)
Parlando di queste vergini, nelle sue Epistole ai Monaci Antonio il Grande dice:
«Parecchi tra i monaci e le vergini ignorano completamente la differenza che esiste tra le tre volontà che agiscono dentro l’uomo. La prima è la volontà di Dio, perfetta e salvatrice; la seconda è la nostra volontà umana, che per se stessa non e ne rovinosa né salvatrice; la terza — quella diabolica — è decisamente nefasta. È questa terza nemica volontà che obbliga l’uomo a non praticare assolutamente la virtù o a praticarla per vanità o unicamente per il «bene» e non per Cristo. La nostra seconda volontà ci incita a soddisfare i nostri istinti malvagi o, come quella del nemico, c’insegna a fare il «bene» in nome del bene, senza preoccuparsi della grazia che possiamo acquisire. Quanto alla terza volontà, quella salvatrice di Dio, essa ci insegna a fare il bene unicamente per il fine di acquisire lo Spirito Santo, tesoro eterno ed inestimabile, che non può essere uguagliato con nulla al mondo».
È proprio la Grazia dello Spirito Santo simbolizzata dall’olio che mancava alle vergini stolte. Esse sono chiamate «stolte» perché non si preoccupano del frutto indispensabile della virtù cioè la Grazia dello Spirito Santo senza la quale nessuno può essere salvato perché «ogni anima è vivificata dallo Spirito Santo per essere illuminata dal sacro mistero dell’Unità Trinitaria» (Prima Antifona al Vangelo del Mattutino). Lo stesso Spirito Santo viene ad abitare nelle nostre anime e questa presenza dell’Onnipotente in noi, questa coesistenza della sua Unità Trinitaria con il nostro spirito non ci è donata che a condizione di lavorare con tutti i mezzi a nostra disposizione per ottenere lo Spirito Santo il quale prepara in noi un luogo degno per quest’incontro, secondo l’immutabile parola di Dio: «Io verrò e abiterò in essi. Sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ap 3, 20; Gv 14, 23). È questo l’olio che le vergini sagge avevano nelle loro lampade, olio in grado di bruciare per molto tempo diffondendo una luce forte e chiara per poter permettere l’attesa dello Sposo a mezzanotte ed entrare con lui nella camera nuziale dell’eterna gioia.
Quanto alle vergini stolte, vedendo che le loro lampade rischiavano di spegnersi, esse si recarono al mercato ma non poterono tornare prima della chiusura della porta. Il mercato è la nostra vita. La porta della camera nuziale, chiusa per impedire di raggiungere lo Sposo, è la nostra morte umana; le vergini, sia quelle sagge che quelle stolte, sono le anime dei cristiani. L’olio non simbolizza le nostre azioni, ma la Grazia attraverso la quale lo Spirito Santo riempie il nostro essere trasformandoci da corrotti ad incorrotti. Così la Grazia trasforma la morte fisica in vita spirituale, le tenebre in luce, la schiavitù verso le passioni alle quali è incatenato il nostro corpo in tempio di Dio, cioè in camera nuziale dove incontriamo Nostro Signore, Creatore e Salvatore, Sposo delle nostre anime. Grande è la compassione che Dio ha verso la nostra disgrazia. E la nostra disgrazia non è altro che la nostra negligenza verso la sua sollecitudine. Egli dice: «Io sono alla porta e busso…» (Ap 3, 20), intendendo per «porta» la nostra vita presente non ancora conclusa con la morte.

continua.

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