La dogmatica dell'immagine

Sebbene la presenza di immagini  nella Cristianità sia attestata fin dai primi secoli del Cristianesimo, e nonostante i primi Padri della Chiesa non fossero del tutto convinti della legittimità delle icone, la Chiesa ha sempre utilizzato le immagini come veicolo di fede, così come spiega Gregorio Magno:

Non è senza ragione che l’antichità ci ha permesso di dipingere nelle chiese le vite dei santi. Proibendo di adorare le immagini, meriti un elogio; distruggendole sei degno di biasimo. Una cosa è l’adorazione ( latrìa) dell’immagine, e altra cosa è l’apprendere attraverso di essa a chi deve giungere la nostra adorazione. Ora, la scrittura è per coloro che sanno leggere, le immagini per quelli che invece non sanno leggere. Attraverso l’immagine gli ignoranti si istruiscono circa chi devono imitare nella vita, le immagini sono il libro dell’analfabeta.[1]

I Padri della Chiesa intuirono subito, fin dai primi secoli, il carattere mistagogico dell’immagine sacra come utile appendice alla predicazione e alla lettura delle Sacre Scritture. Il vescovo Severo di Marsiglia difatti si era accanito contro alcune parrocchie nelle quali i parroci avevano fatto dipingere i muri con delle scene sante. San Gregorio Magno, seguendo la linea della didattica iconografica, si poneva in contrasto coi primissimi autori cristiani come Tertulliano ( adversus imagines ) e contro Eusebio di Cesarea, ma seguiva il corso nuovo e ben più equilibrato della Patristica costantiniana; anche san Nilo, ad esempio, scrivendo al prefetto di Costantinopoli, Olimpiodoro, il quale voleva far edificare una chiesa dedicata ai Martiri, gli ricorda di farla affrescare con immagini tratte da passi biblici, onde istruire gli illetterati[2]. In Occidente, il tema della muta predicatio ( predicazione silente ) tramite immagini fu il principale motore dell’abbellimento dell’edificio ecclesiastico.

Quando gli iconoclasti nel VIII secolo si scagliarono con violenza contro le icone e le immagini sacre, nei paesi iconoduli (come nella Latinità) prese posto una grande produzione di immagini per controbattere gli eretici, mentre gli scrittori bizantini si diedero da fare per esporre dogmaticamente la liceità del culto delle icone: i più significativi furono san Giovanni Damasceno, san Niceforo di Costantinopoli e san Teodoro Studita. Nel 787, sotto il patrocinio dell'imperatrice Irene di Costantinopoli, fu chiamato il Settimo Concilio Ecumenico: il culto delle immagini fu accettato dalla Chiesa Universale e Indivisa. Una seconda, piccola, parentesi iconoclasta è da collocarsi come periodo fra i primi anni del IX secolo fino al 843, quando un concilio a Costantinopoli sancì la definitiva condanna dell'iconoclasmo. Questo concilio è festeggiato nella Festa del Trionfo dell'Ortodossia.


La base dogmatica a fondamento dell'iconografia è l'Incarnazione e i dogmi cristologici ad essa legati. Le relazioni fra le due nature di Cristo, quella umana e quella divina, sono la chiave per comprendere l'icona. Di questo hanno dibattuto lungamente nei secoli precedenti il VII Concilio Ecumenico personalità come san Cirillo patriarca d'Alessandria, san Massimo il Confessore e Leone Magno, papa di Roma. Al Concilio di Costantinopoli del 553 fu proclamata la Cristologia ortodossa delle due nature di Cristo, umana e divina, indivise ma non per questo confuse.

Dopo la consultazione dei Padri più antichi e quelli più vicini ai membri del VII Concilio Ecumenico, la sinassi del 787 stabilì quanto segue:

Noi, seguendo la via regale e l'autorità divinamente ispirata dai nostri santi Padri e dalla Tradizione della Chiesa universale - nella quale, come sappiamo, soffia lo Spirito Santo, definiamo e con ogni certezza che non solo l'immagine della preziosa e venerabile Croce datrice di vita, ma anche le venerabili immagini sante, come quelle dipinte o composte nei mosaici, così come di ogni altro materiale, devono essere presenti nelle chiese sante di Dio, così come sui vasi e sui paramenti, così come all'interno delle case e fuori da esse, per mostrare la figura del nostro Signore Dio e Salvatore Gesù Cristo, della nostra purissima Sovrana, la Madre di Dio, gli Angeli degni d'onore, di tutti i Santi e di tutti i beati. Tanto più frequentemente essi sono rappresentati nell'Arte, così gli uomini vengono condotti a riflettere sul proprio prototipo, e sulla loro fine. E a queste (immagini) va devoluta ogni devozione e riverenza, non infatti l'atto di adorazione in fede ( latrìa ) che spetta solamente alla natura divina. Ma a queste (immagini), così come alla vivificante Croce e ai Vangeli, e come verso tutti gli oggetti sacri, si possono offrire incenso e candele secondo gli antichi costumi. Questo perché l'onore che si accorda all'immagine si trasla su colui che l'immagine rappresenta, e colui che riverisce l'immagine, costui riverisce coloro che vi sono rappresentati. A cagione di ciò l'insegnamento dei nostri santi Padri, il quale resiste in questa pratica, è la Tradizione della Chiesa Universale, che ha ricevuto il Vangelo da una estremità all'altra della terra. Noi seguiamo infatti Paolo, che comanda di mantenersi nella Fede che il Cristo e gli Apostoli hanno lasciato e che noi abbiamo ricevuto. E per questo, profeticamente, cantiamo fra gli inni della Chiesa: "gioisci, Figlia di Sion; grida, figlia di Gerusalemme; Gioisci e rallegrati di tutto cuore: Il Signore ha allontanato da te l'oppressione dei tuoi nemici; Sei redenta dalla mano dei tuoi avversari. Il Signore è Re in mezzo a te, non vedrai più il male, e la pace sarà in te per sempre."

É chiaro, dunque, che la venerazione delle immagini è lecita. L'immagine è distinta dalla figura rappresentata, e  difatti l'onore è della persona rappresentata in essa, e non per l'icona in sé. Altrimenti, sarebbe adorazione del materiale o peggio della figura di per sé, sarebbe un atto di idolatria. Per comprendere meglio la legittimazione delle immagini che queste hanno ricevuto da parte della Tradizione, leggiamo adesso alcune considerazioni di san Teodoro, abate del monastero di Studion a Costantinopoli, espresse nella sua opera Antirrheticus, nel libro I e nel libro II.

Il pensiero di san Teodoro Studita

Un mosaico di san Teodoro abate di Studion

San Teodoro specifica infatti che la natura divina di Cristo, o la persona divinizzata e quindi "resa prototipo" o archetipo (la Madre di Dio e i santi), non può essere circoscritta o catturata in una immagine. Egli sosteneva piuttosto che la persona divina di Cristo come uomo può essere circoscritta. Per questo possono venire create le icone, perché può venire mostrata la completezza del Cristo come Dio e come uomo, e quindi ogni individuo che viene mostrato in una icona porta con sé i suoi tratti distintivi.

Il teologo, ad ogni modo, non ritiene che l'icona partecipa della natura divina né umana: in altre parole, l'icona è una semplice immagine che non ha in sé la sostanza divina né energie divine in alcun modo. La relazione fra l'immagine di un santo e coloro che lo venerano attraverso l'immagine è una percezione delle realtà celesti. Secondo san Teodoro, non possiamo realmente onorare un santo se non lo comprendiamo: l'immagine è un ausilio alla preghiera, non il mezzo principale. Un ruolo cruciale nel processo di venerazione delle icone passa per l'esperienza dell'immaginazione, che attiva i sensi spirituali e conduce il pensiero al soggetto della nostra adorazione: per questo si scrive il nome del soggetto sopra l'icona, affinché conosciamo chi stiamo venerando. E' chiaro che noi preghiamo con le icone, e non le icone. Teodoro Studita considera la venerazione delle icone come un mistero liturgico.  L'icona predispone il credente all'azione sacramentale della Grazia di Dio.

Nei riguardi dell'aspetto delle icone, san Teodoro scrive:

Come può essere dipinta una essenza (natura), se questa non è concretamente visibile in una persona? Pietro, a ragione, non è dipinto semplicemente come uomo, giacché come lui può essere dipinto Paolo o Giovanni, che hanno le medesime caratteristiche di mortalità, di intelligenza e di spirito. Pietro piuttosto è rappresentato con le sue qualità che possedeva in vita, in addizione a ciò che è proprio della generale natura umana e alla sua in specifico, come i capelli ricci, il naso curvo, gli occhi dolci, un volto compiaciuto, e qualsiasi altra cosa gli fosse propria, e che lo differenzia dagli altri della nostra specie[3].

Teodoro, riprendendo alcuni concetti aristotelici, sostiene che un concetto generale sussiste negli individui particolari. Contrariamente al platonismo, Teodoro ritiene che le cose esistono solo nella realtà, sebbene le idee possano rimanere astratte. L'archetipo non è presente nelle icone nella sua essenza, altrimenti non potremmo definire una icona e il suo soggetto, come "originali", qualora non vi fossero impressi nell'icona i tratti distintivi del soggetto stesso.

Il santo abate di Costantinopoli richiama poi un costume antico, a sostegno della sua tesi, ricordato anche dal patriarca Germano di Costantinopoli e da Leonzio di Neapolis, secondo il quale, una volta che le icone hanno perduto il loro carattere (ad esempio la nitidezza dell'immagine), senza esitazione possono essere gettate nel fuoco come inutili pezzi di legno[4]. Se l'icona fosse sacra di per sé stessa, nessuno avrebbe osato dire, tantomeno un santo come Teodoro, che essa può essere data alle fiamme. A differenza di san Giovanni Damasceno, che paragonava le immagini alle reliquie, per san Teodoro Studita la santità dell'immagine risiede solamente nel carattere - o persona - che vi è dipinto sopra. A differenza della materia dei sacramenti, specifica ancora Teodoro, l'immagine non santifica per se, cioè il materiale dell'icona non è santificato come lo è l'acqua battesimale o non è certo sacro come la Divina Eucarestia, però la persona che prega con l'icona è sostenuta dalla grazia in relazione al soggetto della preghiera. Non c'è unione ipostatica o essenziale fra il materiale dell'immagine e l'immagine stessa, ma piuttosto sussiste un processo relazionale fra coloro che pregano con l'immagine e il soggetto rappresentato. In questo senso si può dire che l'icona di Cristo è Cristo stesso. Secondo il teologo, una icona "non scritta", cioè priva di nome, non è una icona, perché manca la relazione fra l'immagine e il rappresentato, e il nome delle icone è la consacrazione della stessa.

San Teodoro, a differenza di altri maestri spirituali, non condanna l'immaginazione nella preghiera, perché per lui è mezzo privilegiato dell'utilizzo delle icone. Secondo Teodoro, l'immaginazione è uno dei cinque poteri (o carismi) dell'anima, e se l'immaginazione fosse stata inutile, Dio non ce l'avrebbe concessa[5]. L'immaginazione ha del potenziale, non è negativa nella sua essenza, anche se può essere corrotta ed essere dunque foriera di peccato: in questo, l'abate di Studion si pone in contrasto con la teologia di Evagrio Pontico, secondo la quale l'immaginazione è negativa a prescindere.


[1] S. Gregorio Magno Papa, Lettera a Severo vescovo di Marsiglia, P.L. 77,1128  

[2] Patrologia Greca, 79,577

[3] Teodoro Studita (Migne, ed., Patrologiae cursus, series graeca (Paris 1857ff.), citato in Schönbörn: God’s Human Face; ed. Ignatius, 1994, pag. 219-220.

[4] Schönbörn: God’s Human Face; ed. Ignatius, 1994, pag. 226

[5] Teodoro Studita (Migne, ed., Patrologiae cursus, series graeca (Paris 1857ff.), ibidem. 

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